Una manovra iniqua e sbagliata
La manovra di Governo, passata in Parlamento a tempo di record, ha potuto godere di un percorso privilegiato solo in virtù del timore, più che fondato, di manovre speculative che ci avrebbero allontanato dall’Europa, rendendo ancora più precarie le possibilità di una ripresa economica del Paese. E così, con un atto di responsabilità generale, è stato accolto l’appello di Napolitano di consentire un percorso celere, riducendo il pericolo di una bolla speculativa.
Ciononostante la manovra appare sbagliata nei tempi e negativa nei contenuti. I 45 miliardi di euro iniziali sono arrivati a 70, ma la cifra, imponente, è in gran parte spalmata sul 2013 e sul 2014, vale a dire alla fine di questa legislatura. La scelta di allungare nel tempo il risanamento del deficit è chiaramente volta a non aggravare la condizione di impopolarità di un Governo uscito con le ossa rotte dagli ultimi appuntamenti elettorali; anche a rischio di perdere efficacia, come dimostra l’andamento in borsa e la ripresa di azioni speculative ripartite lunedì.
Peggio ancora per i contenuti: si colpiscono le pensioni sul terreno della rivalutazione e dell’allungamento dell’età pensionabile; si aumentano le tasse attraverso la riduzione di tutte le voci di detrazione fiscale; si abbatte ulteriormente la spesa sociale e si aggravano i costi di compartecipazione dei cittadini, prevedendo nuovi tagli alla sanità e reintroducendo i ticket sulle prestazioni; si riducono ulteriormente i finanziamenti a Comuni e Regioni compromettendone vieppiù le funzioni sociali. Infine si aumenta il valore
dell’Iva scaricandone i costi sui cittadini per effetto di aumenti che incideranno maggiormente su chi dispone di redditi più bassi. A fronte di queste misure destinate a impoverire i redditi da lavoro dipendente e da pensione, non c’è ombra di intervento sulle grandi ricchezze, sulle rendite e sulle operazioni finanziarie (a parte un contributo di solidarietà sulle pensioni più ricche). Nessuna riforma che snellisca i costi della politica e del suo funzionamento. Al solito, l’unico segnale di riduzione dei costi è venuto dalle strutture che fanno riferimento alla presidenza della Repubblica. Né è stata decisa la benchè minima razionalizzazione di qualche livello dell’amministrazione politica (vedi l’esempio delle province). Infine le liberalizzazioni degli ordini professionali hanno salvato le principali corporazioni. Un governo dunque che non si limita a difendere le classi più ricche, ma mette al riparo da qualunque riforma e modernizzazione le varie caste che costituiscono, evidentemente, lo zoccolo elettorale più duro e fedele. Per questo insieme di ragioni la Cgil non condivide le scelte del Governo e sta avviando iniziative di mobilitazione in vista della ripresa autunnale, con il duplice obiettivo di spostare i pesi della manovra sulla rendita, sull’evasione e sull’ammodernamento della macchina politica e di ottenere scelte, oggi totalmente assenti, sul versante della ricerca, dell’innovazione, del lavoro e della crescita economica. Altrimenti rischiamo una manovra che mette insieme ingiustizia, inefficacia e depotenziamento economico del nostro Paese.
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Iniquità dietro lo scudo della manovra economica ,E adesso il Governo introduce i diritti del lavoro a pagamento Per avviare una causa di lavoro scatta una “tariffa” media di 225 euro
Questo Governo, che non tocca la rendita e le grandi ricchezze e fa pagare il contenimento del debito al lavoro dipendente e ai pensionati, non perde occasione nel marasma generale per affondare i diritti e indebolire le tutele dei lavoratori.
Nella manovra, sotto la voce “disposizioni per l’efficienza del sistema giudiziario”, è stata introdotta una norma che costringe il lavoratore a pagare una gabella per ogni causa di lavoro che decida di avviare per difendersi. Il Governo ha disposto un “tariffario” che va da un minimo di 18,50 a un massimo di 733 euro per singola causa di lavoro e previdenziale.
Per la maggior parte dei casi (cause per licenziamento, impugnazione dei termini, riconoscimento del rapporto di lavoro, mobbing e così via) la tariffa media che il lavoratore è chiamato a pagare per ottenere giustizia comporterà un costo di 225 euro, più altri 8 di bollo.Va così avanti la macchina che tende progressivamente a distruggere la legislazione del lavoro, attraverso una serie di provvedimenti avviati da Sacconi, un ministro da “macelleria sociale” che sta riportando indietro di 50 anni la lancetta dei diritti, rimettendo la Costituzione fuori dai luoghi di lavoro.
Questo disegno inequivocabilmente reazionario è iniziato con la sottrazione di materie alla magistratura, affidandole a commissioni arbitrali e trasformando la certezza dei diritti in merce di scambio monetizzabile.
Si continua adesso con la decisione aberrante della giustizia sociale “a pagamento”. E’ più che evidente che un operaio licenziato, un precario con un rapporto di lavoro irregolare non è esattamente nelle disposizioni di pagare più di 200 euro, prima ancora di avviare un contenzioso di cui non conosce l’esito.
Al di là dell’entità del “pizzo”, è l’idea in se stessa di stabilire un prezzo ai diritti che è eticamente ripugnante e offensiva per la coscienza civile del nostro Paese. Quella che si presenta è l’immagine di un Governo incapace di affrontare i nodi della crisi, della corruzione politica, delle illegalità diffuse, ma che manifesta un attivismo feroce e becero nei confronti dei settori più deboli e indifesi della società.
Non è un caso che l’ultimo direttivo della Cgil abbia dedicato uno specifico or- dine del giorno a questo provvedimento, impegnando l’organizzazione ad una battaglia politica e sociale a tutto campo per ottenere il ritiro della norma, non escludendo il ricorso in sede costituzionale.
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Soggiorno per motivi familiari
La Corte d’appello di Roma ha riconosciuto il diritto di un cittadino tunisino alla carta di soggiorno per motivi familiari, nonostante fosse entrato illegalmente in Italia, in quanto regolarmente sposato con una cittadina dell’Unione Europea, nel caso specifico una donna rumena. “Ha pertanto il diritto afferma
la sentenza - di beneficiare della carta di soggiorno in quanto familiare di una cittadina dell’Unione di cui lo stesso non ha la cittadinanza”.
Il decreto della Corte d’Appello recepisce il principio già sancito dalla Corte di Giustizia della Comunità europea (sentenza 25/7/2008), precedentemente disatteso sia dalla questura di Roma, sia dal giudice di primo grado. Questo principio sancisce infatti che ogni citta- dino di un paese terzo che si sposi con un altro appartenente all’Unione e che soggiorni in uno stato membro di cui non ha la cittadinanza, gode in ogni caso delle disposizioni della Direttiva a prescindere dal luogo e dalla data del loro matrimonio, oltre che dalla modalità con cui questo cittadino ha fatto ingresso nello Stato membro ospitante.
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